Faccia a faccia

Gianrico Tedeschi, il teatro e la storia

Gianrico Tedeschi
di Marco Ferrazzoli

A 95 anni va in scena con il ruolo di un partigiano. Nella realtà è stato uno degli Internati militari italiani che hanno patito due anni di lager. In quest'intervista ricorda questa drammatica esperienza, vissuta con tanti compagni eccezionali, e la sua straordinaria carriera trascorsa tra teatro, televisione e pubblicità

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Incontriamo Gianrico Tedeschi, uno dei maggiori attori del nostro teatro oltre che un testimone storico di straordinaria importanza, nel suo camerino al Teatro Nino Manfredi di Ostia, dove è in scena con 'Farà giorno’ accanto a Marianella Laszlo e Alberto Onofrietti. E gli chiediamo, oltre che di rispondere alle domande dell’intervista, un regalo per il Museo degli internati militari italiani che l’Associazione nazionale reduci dalla prigionia sta realizzando a Roma: una lettura da inserire nella parte multimediale del Museo, alla quale il Cnr sta collaborando attraverso l’Itabc (Istituto tecnologie applicate ai beni culturali). Ce la concede con la generosità che unisce a una lucidità invidiabile, stanti i suoi 95 anni.

Maestro...

Oh Madonna: 'maestro’…

Non si sente tale? Il personaggio che interpreta in scena, in fondo, lo diventa.

Il protagonista di 'Farà giorno' è un vecchio partigiano, quindi in qualche modo mi somiglia, perché certe cose, la guerra, le ho vissute anche io, che ormai ho quasi 150 anni... Parliamo dell’ultima, beninteso… Certo, in questo partigiano c’è dentro anche un po’ del mio mondo.

Partigiano che si confronta con un giovane di idee opposte e alla fine un dialogo si trova.

Si, alla fine si trova tra di loro un rapporto che è di pensiero, di intelligenza, per cui è utile a tutti e due, al giovane e al vecchio. Direi soprattutto al vecchio. O almeno per me è così, sento che il confronto è importante soprattutto per me. Ma spero lo sia anche per lui.

Gianrico Tedeschi

La capacità di 'parlare' con il giovane in qualche modo ricorda quella che lei ha di parlare con il pubblico?

lo vivo per il pubblico, per me il pubblico è tutto. E sento, spero che il pubblico abbia affetto nei miei confronti. Mentre quello che io provo nei confronti di chi mi viene a vedere, più che affetto, è un senso del dovere, un impegno, una responsabilità che mi assumo. Andare su un palcoscenico che sta un metro e mezzo sopra le teste delle altre persone, e mettersi a parlare, è una cosa da prepotenti… Per fortuna esprimi pensieri, dici parole, sollevi problemi e riporti ricordi soprattutto di altri, di grandi autori. Per la verità è proprio per questo che mi sono sempre servito di loro, dei grandi autori del grande teatro, e questo merito me lo devo riconoscere.

Tanta della sua carriera si è svolta però sul palco televisivo.

È un’esperienza che ricordo bene perché con la prosa televisiva ho potuto rivolgermi a un pubblico che spesso non era quello che andava a teatro: nel recitare c’era quindi anche il desiderio di convincerlo, di arrivare a queste persone, di parlare loro di temi e di una vita che non conoscevano.

In televisione è stato anche un notissimo testimonial delle pubblicità, la considera un genere minore?

È un genere minore che però dà una grande notorietà, quindi diciamo che è un giusto mezzo. Scherzo: se sia un genere minore, no, non lo so…

I suoi esordi teatrali sono stati molto particolari: in prigionia.

Si, ho recitato in prigionia, nel lager di Sandbostel… non solo in un luogo particolare ma anche con dei compagni particolari, talmente particolari che ora non glieli so ricordare… I deportati erano in gran parte ufficiali, gente colta, professionisti di tutti i settori: avvocati, medici, scrittori, giornalisti... Tra di loro ci sono tanti personaggi molto importanti.

Giovannino Guareschi, il filosofo Enzo Paci, il pittore Giuseppe Novello, Alessandro Natta, Oreste Del Buono.

I tedeschi volevano imporci di dire di sì alla Repubblica Sociale, volevano mandarci a Salò, ma pochissimi hanno aderito a questo invito, quasi tutti sono rimasti fermi. A fare la fame.

E a subire per due anni violenze e umiliazioni.

Umiliati? Per esserlo bisogna che ci si senta di essere tali. E noi umiliati non ci sentivamo, da quelli che consideravamo e che erano dei disgraziati, dei poveretti, degli imbecilli, l’umiliazione uno non la può subire da parte degli imbecilli. Ma la fame… Fortunatamente ricevevo qualche pacco, ci davano dei moduli da mandare a casa, dove però morivano di fame anche loro, era una cosa tremenda. Io mi sono salvato solo perché per uno o due anni, subito dopo i diciotto, ho insegnato nelle scuole elementari, e ricordandomi di quest’esperienza a scuola ho scritto agli studenti: io sono qua, ho bisogno anche del pane. E dai ragazzi delle scuole mi sono arrivati i pacchi con del cibo.

Guareschi coniò il motto: 'non muoio neanche se mi ammazzano’. Si ritrova in questa idea?

Sì, quelli che sono rimasti lì erano così.

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