Saggi

Morire, ma soprattutto vivere dal ridere

di M. F.

David Le Breton, già autore dell'“Antropologia del dolore”, presenta ora ai lettori italiani una “Antropologia dell'homo ridens”. La risata è una forma di espressività umana - comunicativa, letteraria e artistica - amplissima, che si lega da un lato alla contemporanea comunicazione digitale e dall'altro a radici ancestrali

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Può apparire curioso o paradossale che proprio David Le Breton, l'antropologo dell'Università di Strasburgo uscito in Italia nel 2016 con l'“Antropologia del dolore” (Meltemi) si presenti ora ai lettori italiani con “Ridere. Antropologia dell'homo ridens” (Raffaello Cortina). In realtà però il ridere non è solo una categoria comunicativa, letteraria e artistica, quella che si esprime nelle categorie del comico, dell'umorismo, della satira, del sarcasmo, dell'allegria, dello scherno, dell'ironia, del grottesco, del bizzarro, dello scherzo e che è stata oggetto di innumerevoli attenzioni narrative e saggistiche. Si pensi solo al noto “L'umorismo” di Luigi Pirandello, pubblicato nel 1908, e all'omonima raccolta di testi, articoli e conferenze, realizzati da Giovannino Guareschi tra il 1938 e il 1951. Oppure a come il riso sia protagonista di tante opere di un autore che non tendiamo subito a catalogare nel brillante come Milan Kundera, da “ Lo scherzo” e “Il libro del riso e dell'oblio” alla sua opera forse più riuscita, “Amori ridicoli” (tutti tradotti da Adelphi). Ma soprattutto viene alla mente “Il nome della rosa”, in cui l'indagine condotta da Guglielmo da Baskerville lo porta a identificare il manoscritto fatale nell'ultima copia rimasta del secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che tratta della commedia e del riso, le cui pagine erano state avvelenate dal venerabile Jorge. I due protagonisti del romanzo di Umberto Eco ingaggiano una contesa in cui uno sostiene che ridere “rende l'uomo simile alla scimmia” e l'altro lo confuta asserendo che la risata è una prerogativa esclusiva dell'uomo. Il tema è insomma squisitamente antropologico e David Le Breton lo affronta quasi in ogni aspetto: forma di espressività umana amplissima, può coincidere con manifestazioni di sollievo e umiliazione, aggressività e socializzazione, superiorità o vergogna, timidezza o sfida, infantilismo e intellettualità. I risultati sperimentali dello psicologo Robert Provine indicano che per ridere servono in media 2,1 secondi, più del doppio del tempo necessario a pronunciare con voce neutra le sillabe "ah, ah, ah", indicando che vengono attivati due meccanismi neuronali differenti. “Per Provine, all'origine della risata potrebbe esserci l'ansimare ritmico che i nostri lontani antenati usavano, proprio allo stesso modo degli scimpanzé, come segnale prima di giochi corporei tipo la lotta. Se ne servivano per rassicurare i loro simili: sarebbero stati oggetto non di una vera aggressione, ma di un finto attacco, utile ad allenare le capacità fisiche di entrambi i contendenti”, commenta Le Breton. Secondo la neuroscienziata Sophie Scott, invece, in media ridiamo con gli altri addirittura cinque-sette volte ogni dieci minuti. “Tutto ciò evidenzia la natura profondamente sociale del ridere, atto che è diventato una sorta di collante delle civiltà umane. E questo anche se si tratta di qualcosa che, da un punto di vista puramente acustico, ha più a che fare con i versi degli animali che con il linguaggio”, scrive Le Breton, quasi a sintetizzare la querelle tra Jorge e Guglielmo. “Quando ridiamo, il nostro corpo fa irruzione nell`interazione con gli altri. Il volto si trasforma, e perdiamo la compostezza abituale”.

Le Breton inquadra l'offerta sempre maggiore di contenuti finalizzate a ridere nella tendenza a rifuggire la maturità nell'Occidente cosiddetto “adultescente”. “È affascinante notare come proprio i media digitali, immateriali, siano diventati il regno della risata, che invece è il fenomeno corporeo per eccellenza”. Questo però non significa che il riso non possa diventare una forza disgregante nelle società occidentali dove “ognuno sente di dover dimostrare una certa distanza dai ruoli che assume nella vita quotidiana, un distacco ironico che si esprime nell'impulso a ridere di tutto. Pensiamo a YouTube: lì la stragrande maggioranza dei video punta sul ridicolizzare gli altri o sé stessi”.

Insomma, una forma che si lega saldamente alla comunicazione digitale ma dalle radici profondamente ancestrali, come conferma l'antropologia: basti pensare al "trickster", l'imbroglione-buffone di tante mitologie, alla protezione assicurata al buffone di corte ma anche a costumi di popoli tradizionali giunti fino ai nostri giorni. “Una delle usanze più caratteristiche del popolo Inuit che vive nell'Artico è la risoluzione del disaccordo tra due individui con un duello a colpi di sberleffi e risate, con l'intero villaggio che assiste alla sfida e assume il ruolo di arbitro”. Conferma lo psicologo Peter Gray: la derisione è un utile strumento usato nelle società dei cacciatori-raccoglitori, per sminuire un membro particolarmente abile, così da evitare che i soggetti più forti decidano di instaurare un'oligarchia. Non meno interessante è la valenza terapeutica: pazienti affette da demenza senile sono state aiutate a con l'uso del ridere, “mentre altri studi mostrano che la visione di filmati comici di venti minuti, più volte alla settimana, riduce il consumo di antidolorifici nelle case di riposo”.

 

titolo: Ridere. Antropologia dell`homo ridens
categoria: Saggi
autore/i: Le Breton David 
editore: Raffaello Cortina editore
pagine: 252
prezzo: € 23.00

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