Narrativa

Diario di una vittoria

di Marco Ferrazzoli

Mirella Poggialini nei suoi ultimi scritti spiega come, nella lotta contro il cancro, spesso i più deboli siano i 'sani', coloro che assistono alla malattia, mentre chi la conduce in prima persona attinge a risorse inimmaginabili

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Che una persona ci appaia più presente dopo la scomparsa è un'espressione che sembra di mera cortesia e invece risponde a una verità sostanziale, quella stessa per la quale si dice anche che l'importanza dell'aria può essere compresa solo quando viene a mancare. È un po' questa riflessione a ispirare il “diario di una malattia” con cui alcuni amici hanno voluto ricordare Mirella Poggialini, critica d'arte e televisiva nata a Milano nel 1936 e nota soprattutto per le sue partecipazioni al 'Grande Talk', allora in onda su Sat 2000, e per le recensioni pubblicate su Tv sorrisi e canzoni, RadioInBlu e Avvenire. Sempre sul quotidiano della Cei, la giornalista pubblicò alcuni articoli nella rubrica 'La strada' tra cui uno, 'Congedo', il cui titolo è indicativo quanto quello della raccolta ora pubblicata da Interlinea: 'Il tempo che rimane'.

La domanda “Quanto tempo ho?” soggiace tutta la testimonianza di Mirella Poggialini, che nella nota del curatore viene giustamente definita “una vittoria”. Da un lato la giornalista riesce ad affrontare la sua “malattia incurabile” grazie a una fede saldissima che le consente di pregare, “Aiutami a sopportare, Signore”, di usare la ragione, “Nessuno sa quanto tempo Dio gli abbia concesso”, e di guardare come a un modello di vita alla sopportazione del dolore, per esempio a “Giovanni Paolo II che della sua malattia ha fatto un'arma”. Dall'altro, a sostenerla è una forza naturale, vitale, quella che consente ai malati di cancro di attingere a risorse inimmaginabili, come attestano alcune pagine di questo diario: “Sapere fa male e bene insieme, anzi, a poco a poco, sento che fa più bene che male. La verità rende liberi”; “Ho paura di non aver paura. Vale a dire: di non aver ancora realizzato quello che mi è capitato, di confondere le piccole paure del momento – la medicazione, il prelievo, il dolore improvviso che blocca il respiro e non so cosa fare – con la paura vera”.

Il messaggio finale è che il tumore palesa soprattutto le debolezze degli altri, per esempio degli occupanti dell'ascensore che, dopo averla vista premere il bottone del piano del reparto Oncologia, “immancabilmente mi lanciano un'occhiata in tralice, poi sfuggono il mio sguardo come impacciati e fissano gli occhi altrove”. Fare ingresso in quel reparto significa, agli occhi dei sani, iniziare il “'miglio verde' che conduce nell'opinione comune a una pena capitale”. A chi assiste è necessario usare accortezze ed eufemismi: “Si dice 'ho il mal di cuore' ma si evita di dire 'ho il cancro'”. Chi invece conduce la battaglia in prima persona, sulla propria pelle, si rivela molto più coraggioso: ecco che nella sala della terapia “Qualcuno legge, altri attendono la fine dell'infusione ascoltando musica con le cuffie […] in un silenzio che non sa di sconfitta”. Chi è malato impara ad apprezzare “Come sono grandi le piccole cose”, la “ricchezza e il dono offerti da una giornata serena”, come “una buona giornata è una giornata buona”.

 

titolo: Il tempo che rimane
categoria: Narrativa
autore/i: Poggialini Mirella 
editore: Interlinea
pagine: 76
prezzo: € 12.00

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