Faccia a faccia

Serve un moderno Lucrezio capace di cantare la natura di oggi

Gavino Ledda
di Alessia Cosseddu

Scrittore, regista, sceneggiatore, ha compiuto da pochi mesi 80 anni ed è attualmente impegnato sul set del nuovo film di Salvatore Mereu 'Assandira'. L'autore del celebre romanzo 'Padre padrone' ci racconta il suo percorso di vita e di studi e di come questo lo abbia portato a immaginare una nuova lingua adatta a descrivere il mondo in tutte le sue dimensioni: umanistiche e scientifiche

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Gavino Ledda nasce a Siligo (Ss) il 30 dicembre 1938 da una famiglia di pastori. Come racconta nel romanzo autobiografico 'Padre padrone', il padre Abramo lo ritirò dalla scuola dopo poche settimane dall'inizio della prima elementare, per portarlo con sé a fare il pastore. Imparò a leggere e scrivere solo in età adulta, durante il servizio militare, ma proseguì gli studi fino alla laurea. Tanti, negli ultimi anni, gli anniversari che lo riguardano: nel 2018 i suoi 80 anni, nel 2015 i 40 anni del romanzo 'Padre padrone' e nel 2017 i 40 anni dell'omonimo film, sceneggiato e diretto dai fratelli Taviani che al 30° Festival di Cannes vinse la Palma d'Oro come miglior film.

Scrittore, regista, sceneggiatore, attualmente è impegnato sul set del film di Salvatore Mereu 'Assandira', in cui interpreta il ruolo del protagonista Costantino, un vecchio pastore sardo che, per accontentare il figlio, si fa convincere a trasformare il suo vecchio ovile abbandonato in un agriturismo. Un conflitto tra vecchio e nuovo che alla fine avrà conseguenze tragiche. Tradotto in 40 lingue, il romanzo 'Padre padrone', è stato un successo internazionale. In una sua recente intervista, Ledda ha dichiarato che ha rinunciato alla carriera universitaria dopo aver capito che, se fosse diventato professore universitario, non avrebbe mai scritto 'Padre padrone' poiché “Per scriverlo, ci voleva uno spirito libero”.

Da pastore a laureato, ma poi che successe?

L'università degli anni '70, a parte le facoltà scientifiche, era per me un'università cieca. Un'università 'padre padrone'. I professori mi sembravano mio padre, quindi mi allontanai. Già il fatto di rifiutarla era come aver scritto metà del libro. Ci vuole molto coraggio a lasciare uno stipendio di assistente universitario e io l'ho fatto. Non sono solo parole. Nel '67-'68, quando gli studenti scandivano i nomi di Castro, Mao, Ho Chi Minh, io non sapevo nemmeno cosa stessero dicendo. Già 10 anni prima era cominciata la mia rivoluzione personale, perciò mi interessava poco la rivoluzione del '68: avevo da colmare millenni di silenzio.

Cosa intende con “millenni di silenzio”?

Rimasi analfabeta fino a 20 anni, perciò, rispetto a loro, ero poco più che analfabeta perché l'analfabetismo non scompare solo quando ti danno la licenza elementare. Ci son voluti 30 anni, in effetti, per colmare questa lacuna che neanche la laurea eliminò completamente. Con la laurea, assimili delle conoscenze che però devi avere il tempo di 'digerire'. Solo la scrittura del libro è riuscita a colmarla un po' ma non del tutto. Andai a studiare a Roma di proposito perché era una sfida, non con mio padre ma col mondo. Anche se non mi aveva fatto frequentare le elementari, mio padre in fondo non era colpevole, erano tanti gli analfabeti e non solo in Sardegna. Io ho voluto dimostrare che un uomo, anche dopo che gli hanno già negato tutto, con la volontà, può arrivare dove gli altri erano arrivati con il percorso di studi convenzionale - elementari, medie, liceo e università - che a me era stato negato.

Che impatto ha avuto su di lei un cambiamento così radicale?   

Ho frequentato l'ultimo anno di liceo fuori dall'esercito e fu un vero trauma perché non ero abituato a stare con gli altri; ma anche questo, per certi versi, è stato utile. Nel '69 mi sono laureato e, raggiunto questo traguardo, mi sono reso conto che quella di scrivere la mia vita non doveva restare un'idea, quindi ho scritto 'Padre padrone'. In effetti, è nato come saggio per descrivere quello che avevo fatto e che mi avevano indotto a fare. Volevo raccontare perché le campagne si spopolavano, l'emigrazione e tutti gli eventi accaduti più o meno tra il '45 e il '61 e l'ho scritto per spiegarlo a me stesso. Inizialmente mi è servito come presa di coscienza, una sorta di analisi. Solo dopo ho deciso di farne un romanzo.

Cosa intende quando dice che, da Galileo in poi, la lingua non è più adeguata allo spirito del tempo della scienza moderna?

L'idea di una lingua pluripatente o pluridimensionale è maturata nel tempo ma, probabilmente, nasceva quand'ero studente alla Sapienza di Roma quando, ogni giorno, entrando e uscendo dall'Università, vedevo il Palazzo delle scienze. Scrivendo 'Padre padrone' mi sono reso conto ancora di più che la lingua convenzionale - perché noi abbiamo una lingua convenzionale, o convenzionata, da sempre - a me non bastava. E questo l'ho capito già prima della laurea. Galileo, o se vogliamo la nascita della scienza moderna, secondo me rappresenta uno spartiacque tra vecchio e nuovo mondo. Mi ero accorto che la lingua di Dante non era sufficiente a inventariare lo spirito della scienza e pensavo che, se Dante fosse tornato nel '68, avrebbe riscritto la Divina Commedia in una lingua più complessa, difficile da immaginare ma che cominciavo a recepire.

Ha accennato al Palazzo delle scienze. Che ruolo ha in tutto questo?

Da studente sono rimasto particolarmente affascinato dal 'De rerum natura' che Lucrezio ha scritto nel 100 a.C. Penso che, ai giorni nostri, ci vorrebbe un moderno Lucrezio capace di cantare la natura per come oggi è, e la scienza. La scienza, rispetto al 100 a.C., nel 1968 era enormemente cambiata. C'erano già stati Einstein, Bohr, Fermi, Marconi. Serviva un altro Lucrezio, un Lucrezio del '68, che doveva scrivere un 'De rerum natura' attuale, che tenesse conto della scienza metabolizzandone le nuove acquisizioni. Ancora mi dovevo laureare, però già mi chiedevo “Chi sarà questo nuovo Lucrezio?”.

Quindi la nuova lingua dovrebbe basarsi sui fondamenti della scienza?

Certamente. In effetti, anche la scienza è convenzionata, però i suoi enunciati, anche se sono riconosciuti validi e confermati, lo sono “fino a prova contraria”. Perciò la convenzione scientifica, pur essendo comunque una convenzione, è aperta, mentre la convenzione linguistica è chiusa. Per la lingua, l'acqua è acqua. A un comune parlante non importa che sia composta da idrogeno e ossigeno. Ma se il parlante è Gavino Ledda invece gli interessa. Il problema è che, quando lo scienziato diventa poeta, chissà perché, si dimentica della scienza. Io sono nato con un animo poetico, ma dovevo pareggiare i conti con la scienza, quindi ho fatto anni di fisica andando a lezione o scomodando amici fisici. Forse l'unico rammarico che ho è di non essermici laureato. Un fiore per un poeta della lingua vecchia non è come un fiore per uno scienziato. Per il poeta della lingua nuova, o pluripatente, sono la stessa cosa, perché si è dato una parola nuova in grado di includere tutte le dimensioni insite nella natura e di rappresentarle come lo scienziato le rappresenta con la matematica perché non ha un altro linguaggio.

Cosa pensa del ruolo che la ricerca può svolgere per la tutela e la valorizzazione dell'ambiente e delle risorse naturali?

Se salvi la natura, salvi te stesso. Per me una quercia, ma tutte le piante in generale, sono importanti quanto sono importante io, per il semplice fatto che se muoiono le piante, muoriamo tutti. Per regredire a uno stato più vicino alla natura e mantenere allo stesso tempo la tecnologia, si deve far sì che la tecnologia sia a servizio dell'uomo e tuteli la natura. La scienza è stata usata non per il bene dell'uomo ma per il suo egoismo. Il film 'Assandira', che interpreto attualmente, si pone il problema del rispetto della natura. La speranza è che serva da monito e metta in guardia l'uomo e lo spinga a limitare il danno o magari ad annullarlo. Occorre capire che stiamo entrando in una trappola mortale. Forse sono idealista, però questo pensiero mi rattrista.

Che progetti ha per il futuro?

Vorrei insegnare la parola pluripatente creando una scuola, anche se non la chiamerei così. La cosa più bella di questo mondo pluripatente è la natura, che è rappresentata soprattutto dal verbo 'essèscere', che è stata la prima cellula della lingua pluripatente. Il verbo essere non ha movimento, è statico. Il suffisso 'escere' gli dà movimento e perciò il verbo 'essèscere' rappresenta meglio il divenire della natura. Per questo non la chiamerei scuola ma userei un termine che deriva da 'essèscere' ovvero 'essèscola'. Se un individuo è alunno dell'essèscola, è come se fosse all'interno della natura. L'essèscola deve formare l'ego con tutti i fermenti e i lieviti della natura (ecco che viene fuori lo spirito del poeta). Da un'essèscola, non potrebbe mai uscire un uomo antropocentrico come succede con la scuola tradizionale. Si sente dire “dobbiamo salvare l'uomo”, invece quella che dobbiamo salvare è la natura.

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