Faccia a faccia

De Simone e l'antica teatralità napoletana

Foto di Roberto De Simone
di Sandra Fiore

Sacre rappresentazioni e feste popolari, il virtuosismo dei cantanti evirati del Settecento e i componimenti aulici, le scenografie fantasiose  e costumi storici: sono alcuni elementi che  compongono il grande mosaico della produzione di Roberto De Simone, catapultandoci nella Napoli del XVIII secolo, capitale florida economicamente e culturalmente, e nelle tradizioni orali tramandate da una mondo agropastorale ormai scomparso. Compositore, musicista ed etnomusicologo ha esplorato le manifestazioni della religiosità napoletana e campana con lo sguardo del ricercatore e dell'uomo appassionato della sua città

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Ascoltare Roberto De Simone, nato a Napoli 25 agosto 1933, mentre racconta il suo lavoro di etnomusicologo e compositore, significa immergersi nell'intima identità della cultura napoletana e campana, che nel corso dei secoli si è espressa anche nello straordinario patrimonio di canti rituali tipici, espressione di un mondo agropastorale ormai scomparso. Il maestro ci accoglie nel salone della sua casa, in via Foria, seduto accanto al grande pianoforte, tra quadri, oggetti antichi, spartiti e statuette del presepe. Regista di teatro, scrittore, è da sempre attratto dall'espressività popolare della società preindustriale, ed è tranchant nel distinguere il folklore, mero prodotto di consumo di massa, dall'antica tradizione del canto che ritiene irriproducibile, se non ricondotta a un progetto artistico che presuppone lo studio di documenti scritti. Recentemente è stato insignito dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale ha dedicato l'ultimo suo componimento “Ma fin est mon commencement”. L'opera “La Gatta Cenerentola” realizzata nel 1976, considerata uno dei suoi capolavori teatrali, è stata rappresentata 175 volte nei primi due anni dopo la sua realizzazione, ispirata alla fiaba di Giambattista Basile, inclusa nella raccolta postuma “Lo cunto de li cunti (1634-1636)”. I suoi interessi antropologici sono confluiti in lavori come “'Il segno di Virgilio” (1982), “Fiabe campane” (1993), “Il presepe popolare napoletano” (1999), “L'opera buffa del Govedì Santo”, (1999), “La cantata dei pastori” (2000). Più di recente ha pubblicato “La canzone napoletana” (2017) e “L'oca d'oro. Commedia dell'arte e mistero in due parti” (2019). Direttore artistico (1981-1987) del Teatro San Carlo di Napoli, dove ha realizzato numerose regie d'opera, nel 1995 è stato nominato per chiara fama direttore del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli.

Foto di Roberto De Simone

Maestro, lei si è formato sulla tradizione classica, concertistica, da cosa è nato il desiderio di approfondire la produzione popolare? 

Mi sono formato sulla tradizione scritta e orale: la prima è testimoniata attraverso stampe e documenti di archivio, la seconda l'ho indagata attraverso ricerche compiute sulla base delle teorie di Ernesto De Martino (antropologo, filosofo n.d.r.), che prescrivevano una ricerca sincrona di un documento, di una testimonianza, ovvero l'attenzione allo stile vocale, gestuale, all'immaginazione della comunità che condivide e comunica un rito collettivo. Ciò accadeva nelle sacre rappresentazioni, quali la festa della Madonna di Piedigrotta, I misteri di Procida, le processioni del Venerdì Santo, eventi che ho voluto documentare anche fotograficamente nel volume “Chi è devoto” grazie agli scatti di Mimmo Iodice.

L'esperienza della Nuova compagnia di canto popolare è stata rivoluzionaria. Perché lasciò il gruppo che lei stesso ha fondato?

Allora, in maniera provocatoria, proposi un approccio diverso rispetto al folk revival del tempo, che si sforzava di riprodurre, imitandoli, i canti della tradizione orale. Dal momento che il documento orale è irriproducibile per chi non fa parte della cultura che lo ha generato, ovvero quella agropastorale, secondo me bisognava attingere esclusivamente alle testimonianze scritte, come ad esempio le villanelle a tre voci (n.d.r. è una forma di canzone profana, nata in Italia nella prima metà del XVI secolo), pubblicate a Napoli nel Cinquecento, e ai madrigali di Gesualdo da Venosa. La collaborazione con la Nccp è venuta scemando perché andavo maturando interessi diversi.

Da quale spinta è nata l'opera “La gatta Cenerentola”?

Ho attinto all'immaginario rappresentativo derivato dal mondo fiabesco e l'opera vuole mettere in campo la religiosità popolare nel suo rapporto con l'immaginario, come accade ad esempio nella scena delle lavandaie, nel terzo atto, dove si svolge un rito di tarantismo, ma senza mai fare il verso al reale tarantismo, bensì in maniera astratta.

Napoli è famosa in tutto il mondo per il “bel canto”

Napoli ha avuto una grande tradizione di canto, pari a quella fiamminga, ma la particolare attenzione alla timbrica vocale ha generato l'opera napoletana del '700 e le composizioni per la vocalità dei cosiddetti castrati, per i quali Leonardo Vinci e il sommo Giambattista Pergolesi hanno realizzato opere specifiche. Questa città è stata capitale della musica fino a quando non siamo diventati provincia della monarchia sabauda, allora è nata la canzonetta napoletana, fenomeno di folklore; ma questo prodotto non mi interessa.

Com'è Napoli oggi? A chi è in grado di “parlare” oggi la sua cultura?

Napoli è una città stravolta dalla globalizzazione, e a farne le spese è quel tessuto urbano fatto di negozi caratteristici, botteghe di artigiani e mercati rionali dove arrivavano le primizie campane. E la sua ormai è una cultura estinta, che apparteneva a un popolo e non alla massa schiava del consumismo imposto con la televisione e gli audiovisivi. A meno che non intervenga un'operazione artistica, in grado di rielaborare quel prodotto peculiare in chiave metastorica. In tal senso apprezzo molto l'opera di Pasolini, che ha mostrato una grande attenzione alla cultura orale e ai linguaggi: “Il Vangelo secondo Matteo” e “Il fiore delle Mille e una notte” sono i film che reputo tra i più belli.

Che rapporto ha con i giovani? Ci sono allievi che raccolgono il suo lavoro di ricerche sulla tradizione?

I giovani hanno il dovere di invecchiare, mentre viviamo in un'epoca dominata dal mito del giovanilismo, dove il giovane sembrerebbe privilegiato culturalmente a esprimere un'entità alla quale indirizzare la cultura, che secondo me deve essere un fatto aristocratico riservato a pochi, come del resto è sempre stato. Ci sono musicisti di nuova generazione che accolgono i miei suggerimenti sui linguaggi e le mie riflessioni sulla professione del compositore oggi.  

Il titolo “Ma fin est mon commencement”, dedicato al presidente Mattarella, si ispira alla pandemia?

La pandemia non ispira altro che il “consumo” della epidemia, io sto chiuso in casa e ricevo poche persone. “Ma fin est mon commencement” trae ispirazione dall'omonimo canone del XIV secolo composto da Guillaume de Machaut, musicista e poeta vissuto a Napoli in epoca angioina.

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