Faccia a faccia

Raccontare è una missione

Foto della scrittrice Edith Bruck
di Sandra Fiore

Testimone dell'orrore nei campi di concentramento nazisti, la scrittrice Edith Bruck, ebrea di origine ungherese, ha saputo gestire un carico di ricordi laceranti grazie alla “terapia” della scrittura, intesa come liberazione e volontà di lasciare un segno, un monito a non cedere alla barbarie di cui ella stessa fu vittima quando era adolescente. 

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L'attaccamento alla vita e la volontà di trovare la “luce” anche nel buio si colgono immediatamente nelle pagine de “Il pane perduto” (La nave di Teseo), un altro tassello aggiunto a un'esperienza più che ventennale di scrittrice, vincitrice del Premio Strega Giovani 2021. Nell'opera, Bruck riavvolge il nastro dei mesi più drammatici della propria vita, quando, nell'aprile 1944, i gendarmi e i fascisti deportarono la sua famiglia nel ghetto del capoluogo e di lì nei campi di concentramento, tra i quali Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen dove il 15 aprile del 1945 la scrittrice, insieme ad altri prigionieri, fu liberata  con sua sorella  dagli americani. “Pesavo venticinque chili. Faticosamente ripresi a vivere”, ha dichiarato. Sopravvissuta allo sterminio, dopo peregrinazioni, giunge in Italia, ne adotta la lingua e sposa Nelo Risi, sceneggiatore, poeta, scrittore. Nelle sue opere narra in prima persona la vicenda più drammatica del secolo scorso. Tra le pubblicazioni: “Chi ti ama così” (1959), il suo primo libro; nel 1962 esce la raccolta di racconti “Andremo in città”, da cui Risi trae l'omonimo film; seguono “L'amore offeso” (2002), “Quanta stella c'è nel cielo” (2009), “Mio splendido disastro” (2011). Tra  le raccolte di poesie, “Il tatuaggio” (1975), “In difesa del padre” (1980) e “Tempi” (2001) il cui primo lettore in assoluto è stato Papa Francesco. Ha ricevuto diversi premi letterari.

Iniziamo subito con il titolo del libro. Il pane che sua madre aveva impastato per la fine della Pasqua ebraica e perduto per sempre

Eravamo una famiglia umile e numerosa che viveva con dignità e profonda religiosità questa condizione. Il pane per noi era un bene prezioso e desiderato. Così alla fine della Pasqua ebraica del 1944, durante la quale si mangia il pane azimo, la nostra vicina di casa ci regalò della farina e mia madre con grande solerzia mise a lievitare cinque pagnotte per cuocerle l'indomani. Ma all'alba i gendarmi ci portarono nel ghetto e la mamma, nella confusione e nella disperazione, continuava a pensare a quel pane che avrebbe dovuto sfamare noi figli.

Lei aveva 13 anni quando fu deportata. Prima di allora cosa sognava di fare da grande?

Sognavo di lavorare e guadagnare per aiutare i miei genitori, perché eravamo molto poveri, ma al contempo coltivavo l'amore per la poesia e la letteratura. Scrivevo bene e a scuola venivo sempre premiata per il rendimento.

Nel libro racconta le vessazioni subite da bambina, discriminata dai suoi stessi coetanei: gli sputi nel secchio appena riempito alla pompa dell'acqua, il saluto tolto, la frattura alla testa arrecata a suo fratello. Secondo lei questi comportamenti si possono associare in qualche modo al bullismo di oggi?

La propaganda nazifascista nel piccolo paese dove vivevo avvelenò gli animi, per fortuna potemmo contare su persone generose che ci aiutarono in quella circostanza: la vicina di casa ci regalò la farina, un contadino, superando le guardie che controllavano il ghetto, riuscì a farci avere tanto cibo. Per me sono gesti indimenticabili. Purtroppo dobbiamo ancora imparare dalle tragedie per essere più tolleranti e aperti verso il prossimo. Recenti episodi di razzismo e antisemitismo strisciante dimostrano che viviamo in una società con poca memoria del passato. La più grande tragedia è che l'uomo non impara. Detto questo, dalla mia esperienza presso le scuole, posso dire che i ragazzi valgono molto di più di come li giudichiamo, la maggior parte ascolta, riflette sul racconto della Shoah. Molti studenti mi scrivono bellissime lettere che sono una vera consolazione, perché vuol dire che la mia parola lascia una traccia nella loro sensibilità e io mi sento ogni volta ripagata dello sforzo di riaprire le ferite del mio passato che non passa. Vorrei dire ai genitori di parlare di più con i loro figli e di coinvolgere nel dialogo anche i nonni, che sono una miniera di esperienze di vita.

Nel lager ha sperimentato che si può trovare sempre una luce nel buio. Un bel messaggio dopo il periodo di pandemia che, per vari motivi, ha portato sofferenze in molte famiglie

A Dachau, nella cucina di un castello dove erano stanziati gli ufficiali, pelavo le rape e le patate. Un giorno il cuoco volle sapere il mio nome e mi regalò un pettinino. In tanta miseria umana, sentii di esistere. In quel momento compresi che un piccolo gesto mi restituiva tra gli umani. Era la luce che si faceva strada dentro il buio.

Dopo il lager, ha vissuto anche la frustrazione dello smarrimento di chi è senza casa e senza un Paese dove tornare. Come ha superato questo stato?

È stato molto difficile e doloroso. Ho avvertito subito la necessità di raccontare, per far sapere quanta sofferenza avevamo vissuto e far conoscere il crimine che avevamo subìto; ho iniziato a scrivere in ungherese nel 1946, ma la società era appena uscita dalla guerra e non era pronta ad ascoltare e ad accogliere. Fuggita dall'Ungheria nello stesso anno ho ricominciato a scrivere in italiano. Non potevo trattenere tanto orrore nell'anima.

Una scelta in sintonia con quanto afferma suo marito Nelo Risi, in “Dentro la sostanza”, e  cioè che scrivere è un atto politico

Lui è stato un poeta socialmente impegnato e la poesia come la letteratura servono anche a denunciare ingiustizie, iniquità; quando si scrive per sé lo si fa anche per gli altri, altrimenti sarebbe un atto narcisistico.

Lei, prima di tutto, è una scrittrice di talento. La condizione di sopravvissuta è stata un ostacolo per far uscire questo aspetto della sua personalità?

La condizione di sopravvissuta mi è pesata, perché è uno status che precede quello di scrittrice, donna, moglie, perché siamo diversi, nessuno può capire fino in fondo il nostro vissuto. Forse, se non fossi stata nei campi di concentramento non avrei scritto, diceva Primo Levi; ma poi riflettendo mi sono convinta che questa era la mia strada, perché in fondo fin da piccola ho capito le ingiustizie del mondo e non per l'antisemitismo. Nel mio villaggio, vedevo gente molto povera, emarginata, derisa e avevo molta pena per i più deboli. Tale realtà mi ha toccato e spinto a riflettere attraverso la scrittura. E poi è la sofferenza e non la felicità a generare forme di arte.

Lei ha avuto anche esperienze nel mondo del cinema e del teatro. Cosa ricorda del clima culturale della Roma degli anni '60-'70?

Era piena di fermento culturale, si toccava con mano la febbre della ricostruzione e il desiderio di benessere economico.

Papa Francesco è venuto a trovarla a casa. Cosa apprezza in questo pontefice?

È un uomo nel senso più nobile della parola, emana calore e dolcezza;  ha chiesto scusa a nome della umanità  per il martirio del popolo ebraico, mi ha ringraziato per l'attività di testimonianza che diffondo tra i giovani.

Qual è il suo rapporto con la scienza e con il mondo della ricerca? Lei racconta di aver assistito per dieci anni suo marito malato di Alzheimer

Ho curato da sola mio marito con l'amore, l'unica “medicina” disponibile quando non c'è via d'uscita con la scienza, un settore su cui si dovrebbe investire di più in Italia garantendo anche stipendi adeguati a chi fa ricerca e si impegna per il progresso nella medicina, nella biologia e in tanti altri settori importanti per lo sviluppo del Paese. Durante la pandemia ho pianto per le vittime e penso che non bisogna prendere alla leggera questo problema.

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