Faccia a faccia

Un racconto tra confini e quarantene

Giovanna Botteri
di Alessia Cosseddu

Giovanna Botteri esordisce come giornalista nella sede regionale della Rai di Trieste, da qui passa al Tg3, quindi nelle zone di guerra come inviata e poi a New York. Nell'agosto del 2019 arriva a Pechino, raccontando della pandemia da dove tutto ha avuto inizio

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Giovanna Botteri è uno dei volti più noti del giornalismo italiano. Esordisce nella sede regionale Rai di Trieste, quindi passa al Tg3 di Sandro Curzi. Da inviata lavora prima nelle zone di  guerra, poi a New York e, infine, nell'agosto del 2019, si sposta a Pechino. Da lì a pochi mesi, diventa un riferimento per il “racconto” della pandemia da dove tutto è cominciato.

L'emergenza sanitaria tante volte è stata paragonata a una terza Guerra mondiale. Lo trova un paragone calzante?

Questa pandemia è qualcosa di straordinariamente globale. La percezione che si ha è di una guerra che, per la prima volta nella storia del mondo, riguarda tutti. La stessa Guerra mondiale non ha coinvolto realmente il mondo intero. E nessuna delle epidemie che abbiamo conosciuto, dalla peste medioevale fino alla spagnola, ha avuto questo tipo di devastante e accelerata diffusione in ogni luogo della Terra, come se nessuno, in alcun posto, potesse sentirsi tranquillo o al sicuro.

Che stati d'animo ha provato nei territori di guerra prima e in Cina poi, nel pieno della crisi sanitaria?

Le situazioni di diffusione della malattia sono estremamente diverse dalle situazioni di guerra, nelle quali sai da dove può arrivare il pericolo. Penso al conflitto nella ex Jugoslavia in cui c'erano i bombardamenti, le granate o i cecchini. In Iraq, la guerra civile era così capillare che il pericolo cambiava di strada in strada. In ognuno dei luoghi in cui sono stata, ho cercato di svolgere il lavoro del racconto, che ti spinge ad avvicinarti quanto più possibile alla notizia, e quindi al pericolo. L'obiettivo è restare vivi, sì, ma anche riuscire a raccontare.

È rientrata ad aprile. Com'è la situazione adesso rispetto a quando l'ha lasciata?

Sono andata via alla fine di agosto, quando la situazione era già stabilizzata. In Cina e in Asia, rispetto all'Europa, c'è un senso più forte del ricordo della tragedia, questo fa sì che i cinesi abbiano ben chiaro in mente che il pericolo non è finito, anche se il virus qui non circola più. Dal marzo del 2020 Pechino ha chiuso i confini e ha annunciato che li terrà ancora chiusi. Appena vengono segnalati anche solo pochissimi casi di contagio, scattano immediatamente le misure d'emergenza, le città vengono isolate e viene effettuato il test a tutta la popolazione. Al mio rientro, ho fatto ben tre settimane di quarantena. Attualmente, in Paesi con cui la Cina confina, come Indonesia, Bangladesh e Malesia, ci sono le stesse scene che abbiamo visto in India un mese e mezzo fa, con la gente che muore per strada perché gli ospedali sono pieni. È una sensazione di forte emergenza.

Come procedono le vaccinazioni?

I Paesi confinanti non hanno vaccinato la popolazione, o il livello è straordinariamente basso. La Cina, invece, ha somministrato almeno un miliardo e duecento milioni di dosi. Il problema è che gli scienziati stanno cercando di capire quanto i vaccini cinesi, come Sinovac e Sinopharm, siano efficaci contro le nuove varianti, in particolare la Delta. Per esempio, l'Indonesia ha avuto centinaia di medici vaccinati con Sinovac che si sono ammalati ugualmente, perciò adesso, per fare la terza dose, stanno utilizzando Moderna. C'è, insomma, il dubbio sull'efficacia dei vaccini cinesi che però sono gli unici disponibili soltanto. Per una come me che ha viaggiato tutta la vita, la sensazione è di essere in un mondo completamente trasformato e che non tornerà più come prima. Mentre prima sentivo che potevo correre all'aeroporto, prendere l'aereo e arrivare ovunque, adesso mi rendo conto che non è più così. Vivo le distanze come le viveva Marco Polo, tra confini e quarantene.

La percezione che abbiamo noi italiani quanto si avvicina alla realtà?

C'è un forte, evidente sentimento internazionale di colpevolizzazione nei confronti della Cina, accusata di aver nascosto ciò che stava accadendo. Io, che ho vissuto tutto ciò che è accaduto da questa parte del mondo, posso dire che se è stato nascosto qualcosa, lo è stato anche a noi. A gennaio eravamo nel pieno delle feste per il nuovo anno lunare, che portano a un grande movimento di persone, se davvero si fosse saputo che qualcosa di tremendo stava succedendo, non sarebbe stato permesso a milioni di persone di muoversi, correndo un rischio così alto. Quando poi è cominciata a emergere la drammaticità della situazione, mi sono accorta, e questo era un sentimento condiviso con gli altri corrispondenti occidentali, che nel resto del mondo si guardava a quanto stava succedendo come a qualcosa di molto lontano, come dire: quel Paese non è sviluppato e pulito come il nostro, quindi lì possono verificarsi questi eventi, a noi non capiterà mai. Ma quando la Cina mette in lockdown sessanta milioni di persone, quando al mattino ti svegli in una città di ventinove milioni di abitanti deserta, capisci che sta succedendo qualcosa di tremendo che, in un mondo così globalizzato, non può restare chiuso nei confini cinesi.

Ci racconta la sua Cina pre-covid?

Sono stata a New York fino ad agosto del 2019, per poi volare in Cina. È stato uno shock culturale molto forte, innanzitutto per l'impatto linguistico. Qui parlano mandarino, scrivono con i caratteri locali e la gente non parla inglese. Ci sono una società, una tradizione, una cultura molto forti, molto diverse e quindi è difficile lavorare.

È stata testimone di avvenimenti importantissimi a livello mondiale. Quale l'ha colpita o emozionata più di tutti?

Quando lavori, non pensi “sto assistendo a un evento importante”, pensi soltanto a raccontare quello che sta avvenendo, a cercare di avere informazioni corrette, buone immagini e la linea per trasmetterle. È evidente che alcune esperienze ti toccano, sensazioni come la paura, il terrore, l'odore della morte restano dentro sempre. Quando ero in Bosnia, ho passato due notti e un giorno in una trincea. Sono di Trieste e quando eravamo bambini, alle elementari, ci facevano visitare le trincee della prima Guerra mondiale. Improvvisamente ho avuto la fortissima sensazione di toccare quello che prima leggevo sui libri, guardavo in un museo o in una vecchia foto e pensavo a quello che avevano vissuto quei soldati nelle trincee.

Sono sempre più frequenti gli esempi di donne al potere. Secondo lei, quanto c'è da fare ancora per raggiungere la parità di genere?

C'è  una domanda  importante da porre: perché le donne devono andare al potere e avere potere? Perché ce l'hanno gli uomini o perché possono fare qualcosa di diverso? Credo sia giusto che il potere venga condiviso tra elementi diversi della società, e quindi che non debbano esserci discriminazioni di genere, di razza, di religione o di orientamento sessuale. Credo che una partecipazione più corale e indifferenziata al potere possa portare a una sua gestione più inclusiva e socialmente più giusta. Chiunque entri nel palazzo del potere, non deve però dimenticare mai la propria specificità, la propria natura, quello che fa di te un essere umano diverso. E questa diversità non deve essere un handicap, ma qualcosa in più: un elemento per far crescere la società in una direzione migliore.

Negli anni '90 ha realizzato un programma con Margherita Hack sull'astronomia. Che rapporto ha con la scienza?

Ho un ricordo fantastico. Margherita Hack ha avuto sempre un bellissimo rapporto con la vita e con le persone, forse perché di mestiere guardava il cielo anziché le miserie della Terra. Il mio rapporto con la scienza, da quando sono in Cina, è molto cambiato. Appena la pandemia è scoppiata, abbiamo iniziato a interpellare gli scienziati e devo dire che sono rimasta un po' delusa. Ho sempre pensato che la scienza fosse in grado di darti certezze, che fosse indiscutibile, invece c'erano ricercatori che dicevano una cosa, altri che ne sostenevano una opposta. Discussioni lunghissime, alla fine delle quali si aveva la sensazione di una smania di protagonismo che non avevamo mai conosciuto tra chi la scienza la pratica e la studia. Non so fino a che punto abbia fatto bene questa forte esposizione mediatica. Credo però che tutto il mondo, nel momento in cui ha visto un vaccino realizzato in tempi incredibili, abbia capito quanto la ricerca scientifica sia importante per la nostra vita e il nostro futuro.

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