Focus: Guerra

Mi ritorni in mente...

soldato
di Cecilia Migali

Le ferite impresse nella psiche di chi ha vissuto un conflitto minano l’identità personale, provocando disagi come attacchi di panico, disadattamento sociale, depressione, che spesso portano a un comportamento violento e autolesivo. Ce ne parlano gli psicologi del Cnr Angelo Gemignani e Sergio Benvenuto

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Morte, devastazione e povertà non sono gli unici lasciti della guerra. Chi riesce a sopravvivere a un conflitto si trova prima o poi e a diversi livelli a fare i conti con disturbi psicologici, che possono sfociare in vere e proprie patologie psichiatriche. Sigmund Freud durante la Prima guerra mondiale le aveva sintetizzate con l’espressione 'nevrosi di guerra’, ridefinite 'disturbo post traumatico da stress’ dagli psichiatri americani dopo il Vietnam.

“I rischi sono essenzialmente legati alla cronicizzazione della paura, che diventa angoscia quando la condizione di guerra non si esaurisce in tempi brevi, ma si protrae nel tempo”, spiega Angelo Gemignani, associato all’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr e psicofisiologo dell’Università di Pisa. “Una simile sollecitazione emotiva innesca una serie di modificazioni dei livelli ormonali (cortisolo e catecolamine e nelle donne anche estrogeni), che portano, a breve termine, ad alterazioni del sonno e, nel lungo periodo, a modificazioni somatiche a carico del sistema cardiovascolare ed endocrino. Studi in modelli animali sull’impatto dello stress acuto e cronico hanno evidenziato inoltre cambiamenti fisiologici e morfologici in molte regioni cerebrali, in particolare nell’amigdala, nell’ippocampo e nella corteccia prefrontale. L’esposizione a 'stressors’ di natura così intensa, oltre a modificare la funzionalità cerebrale, determina anche alterazioni a livello molecolare, predisponendo allo sviluppo della sintomatologia depressiva e del Disturbo post traumatico da stress (Dpts)”.

Incubi notturni, improvvisi attacchi di panico, sbalzi di umore, indifferenza e disadattamento sociale sono le manifestazioni più comuni dei reduci ma anche dei civili che hanno vissuto in prima persona lo shock di un conflitto. “Soffrire di sindrome post traumatica comporta 'rivivere' l’evento traumatico, perdendo improvvisamente il contatto con la realtà e arrivando a provare un terrore molto intenso”, prosegue il ricercatore. “Queste reazioni psicofisiologiche possono manifestarsi anche mesi o anni dopo l’evento traumatico, sebbene mediamente la comparsa dei primi sintomi si registri a partire dal secondo e terzo mese successivo al trauma. Il disagio psicologico si trasforma in uno stato perenne di ansia, che nel tempo può condurre a forme di tossicodipendenze, abusi, violenze, omicidi e soprattutto suicidi”.

Per i civili è necessario considerare anche altri aspetti, come il senso di vuoto dovuto alla perdita dei familiari, della terra e della casa. “Innanzitutto, il trauma per queste persone consiste nel provare quotidianamente la paura per la propria incolumità e per quella della propria famiglia e spesso anche il senso di colpa per essere sopravvissuti ai propri cari”, chiarisce Sergio Benvenuto, psicoanalista dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc) del Cnr. “Per chi fugge all’estero, si aggiunge il trauma dello sradicamento dalla propria realtà, della precarietà dei campi profughi e, spesso, del senso di estraneità che si vive nel Paese d’accoglienza. Anche per questi soggetti, come per i soldati, si registrano reazioni psicotiche, attacchi di panico, angoscia e depressione”.

L’impatto di un evento doloroso sulla mente varia però da soggetto a soggetto e gli effetti possono manifestarsi in tempi e modi imprevisti. “Molti traumi possono essere anche silenti, ovvero all’inizio non clinicamente rilevabili, e allora diventa difficile sapere fino a che punto un comportamento morboso sia effetto del trauma di guerra o di altri fattori”, avverte Benvenuto. Per questo motivo gli psicologi affermano l’importanza di un supporto tempestivo sui teatri di guerra. “È necessario agire nell'immediato periodo dopo l’esposizione allo stress acuto, e per fare questo lo psicologo dovrebbe trovarsi a ridosso delle linee di conflitto. Le ferite mentali minano l’identità personale, per affrontarle si possono impiegare varie contromisure documentate nella letteratura scientifica. Tra queste, oltre naturalmente ai percorsi psicoterapeutici, ci sono anche l'agopuntura e le tecniche di respirazione e meditazione, tra cui il protocollo 'Mindfulness Based Stress Reduction’, che riporta una riduzione della percezione dello stress tramite una maggior consapevolezza”, conclude Gemignani.

Fonte: Sergio Benvenuto, Istituto di scienze e tecnologie della cognizione, Roma, tel. 06/44362370(6) , email sergio.benvenuto@istc.cnr.it - Angelo Gemignani, Istituto di fisiologia clinica, Pisa, tel. 050/3152699 , email gemignan@dfb.unipi.it -

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